Come l’autocompassione può diminuire l’autocritica e la vergogna

Ognuno di noi ha una voce interiore (inner voice), una parte di noi spesso critica che alimenta insicurezze e ci fa sentire vulnerabili, in difetto o sbagliati. Spesso si presenta sottoforma di frasi come “non vai bene”, “non sei abbastanza bravo/buono/intelligente…” “sei pigro/stupido/idiota”, insomma, non ha una forma dolce e accogliente di commentare ciò che facciamo e, soprattutto, i nostri errori. Questa voce possiamo definirla “autocritica” e, anche se sembra che ogni tanto ci sproni a dare il meglio, in realtà ha un effetto totalmente opposto e insinua il pensiero che dobbiamo essere perfetti, non sbagliare mai e ci rende particolarmente sensibili ai sentimenti di vergogna e alle critiche altrui e predispone a tratti perfezionistici.

Questa voce interiore nasce fin da quando siamo bambini e può essere l’interiorizzazione di critiche, svalutazioni o rifiuti ricevute da persone significative della nostra infanzia. Queste prime esperienze sembrano lasciarci una profonda cicatrice, che si tramutano nella convinzione che solo se siamo davvero duri con noi stessi su ciò che abbiamo fatto o non fatto, su chi siamo e come dovremmo essere, allora potremo diventare le persone che “dovremmo” essere (cioè totalmente buoni/intelligenti/giusti, ecc.).

Succede spesso, infatti, di ricordare nel nostro passato adulti che, nel corso della nostra vita, ci hanno criticato molto, ci hanno sottomesso oppure ripetutamente detto cose spiacevoli sul nostro conto, come ad esempio che non andavamo bene. Possiamo essere stati derisi, bullizzati a scuola dai pari o persino a casa da un membro della famiglia. Quando ripensiamo a queste occasioni possiamo ricordare quella sensazione terribile di non sentirsi desiderati, amati, di valore o buoni abbastanza.

Quindi, anche da adulti, possiamo ricordare le cose crudeli e spiacevoli che le persone ci dicevano o ci facevano quando eravamo bambini. Possiamo anche crederle vere, essere convinti che meritavamo di essere trattati in quel modo. Quando da adulti siamo autocritici spesso rivolgiamo a noi stessi quei pensieri cattivi che gli altri ci dicevano in passato. Può anche essere una conversazione con noi stessi nella nostra mente, ma resta comunque critica aspra. I sentimenti di vergogna e autocritica saranno tanto più difficili da arginare se abbiamo avuto esperienze inadeguate di amore e cura e se siamo stati trascurati e abusati da chi avrebbe dovuto amarci e proteggerci.

Tutto ciò risulta particolarmente vero per coloro che manifestano ansia sociale. Infatti, in seguito ad un fallimento o un errore in contesti interpersonali, le persone con Disturbi di Ansia Sociale (DAS) mostrano una preoccupazione costante della valutazione della propria performance da parte degli altri e livelli particolarmente elevati di autocriticismo. Come suggeriscono diversi modelli cognitivi, il timore delle situazioni sociali, il loro evitamento e la paura della valutazione negativa e spesso il perfezionismo, sono caratteristiche fondamentali del disturbo.

Autocritica ed autocompassione

Ciò che rende difficile arginare l’autocritica è l’accettazione della nostra natura umana e per questo imperfetta e fallibile. Volendo riformulare un famoso detto in modo più funzionale direi che “sbagliare è umano, criticarsi è diabolico”. È importante imparare ad accettarci per quelli che siamo, perché il cambiamento che può portarci a un miglioramento interiore non arriva dalla critica aspra verso di sé, ma dall’apertura, dall’accettazione e dal calore che possiamo provare verso di noi. In altre parole, è importante sviluppare una compassione verso di sé ed amarsi in modo incondizionato.

L’accettazione, quindi, passa per la comprensione: accettarsi maggiormente sarà la conseguenza del capire che non dobbiamo incolparci di nulla che abbia a che vedere con il nostro aspetto, intelligenza, o qualsiasi nostro comportamento discutibile. La soluzione è portare compassione e comprensione verso ogni pensiero di auto-disprezzo verso sé stessi, e soprattutto capire che non abbiamo sempre la responsabilità di ciò che avviene. L’autoaccettazione si riferisce al grado in cui siamo capaci di accogliere tutte le parti di noi stessi (sia positive che meno positive) per come sono.

Che cosa significa essere compassionevoli con sé stessi?

Provare compassione, in senso generale, significa essere toccati dalla sofferenza degli altri, senza evitare il contatto e senza distaccarsi in modo da lasciar emergere un sincero sentimento di comprensione, gentilezza e desiderio di cura, offrendo un atteggiamento di comprensione non-giudicante nei confronti degli errori che vengono visti nel contesto della condivisione dell’umana fallibilità.

Provare compassione nei confronti di sé stessi significa essere aperti nei confronti della propria sofferenza, senza evitarla o senza disconnetterci, con il desiderio di alleviarla e di curarci con gentilezza. È caratterizzata anche da un atteggiamento di non giudizio per le proprie inadeguatezze e i propri fallimenti nel più largo contesto dell’esperienza umana.

Al contrario di quel che si può credere, la compassione nei confronti di se stessi non aumenta l’egocentrismo, ma migliora la capacità di provare compassione verso gli altri e ne diminuisce il giudizio, proprio perché porta a riconoscere la propria interconnessione e uguaglianza nei confronti degli altri.

Inoltre, quando il nostro sé viene duramente autogiudicato in una sorta di autoflagellazione che vuole spingerci al cambiamento e al miglioramento, la funzione protettiva dell’ego spesso agisce come un schermo protettivo che riduce la consapevolezza, portando così, come effetto negativo, alla strutturazione di possibili ripetizioni non consapevoli del comportamento disfunzionale (come la ricerca di sostanze, abbuffate, compulsioni, ecc.). L’autocritica può condurre ad intense reazioni avverse legate alla resistenza al dolore. Questa risposta si accompagna ad un proliferare di pensieri ruminativi e di affetti negativi come ansia, depressione, angoscia.

Compassion Focused Therapy

La Compassion Focused Therapy (Terapia Focalizzata sulla Compassione) è un approccio psicoterapeutico di recente diffusione che fa parte delle Psicoterapie Cognitivo Comportamentali Mindfulness-based. La CFT è stata sviluppata dal Paul Gilbert, professore di psicologia presso l’Università di Derby nel Regno Unito, da anni impegnato nella ricerca scientifica sul senso di colpa, sulla vergogna e sull’autocritica, da egli ritenuti elementi centrali di molti disturbi psicologici, dalla depressione alle psicosi.

La Compassion Focused Therapy (CFT) offre una spiegazione della psicopatologia e del suo mantenimento basata sulle dinamiche di attivazione di alcuni sistemi di regolazione emotiva presenti nel nostro cervello e propone una visione del processo di cambiamento che si basa sulla modulazione di sistemi motivazionali e affettivi connessi all’attaccamento.

Per i terapeuti, usare l’approccio focalizzato sulla compassione implica educare le persone a sviluppare tre tipi di compassione: l’auto-compassione, la compassione verso gli altri e l’apertura alla compassione da parte degli altri, in risposta alle avversità e alle situazioni minacciose. La compassione di sé permette di non considerare le performance come metro di valutazione del valore personale ma, discernendo la qualità delle prestazioni e mostrando motivazione a crescere, aiuterebbe a smussare gli aspetti nevrotici e dolorosi del perfezionismo, dove ciò che anima l’individuo è il terrore di fallire e di essere criticato piuttosto che la curiosità e il desiderio di migliorarsi.

La CFT nella pratica clinica trova buoni risultati nel trattamento del Disturbo Post Traumatico da Stress, delle psicosi, dei disturbi dell’umore, dei disturbi alimentari e del dolore cronico.

I sistemi di regolazione emotiva secondo la CFT

Alla base della CFT vi è l’ipotesi evoluzionista che nel cervello umano esistano tre sistemi cerebrali sottesi alla regolazione delle emozioni:

  • Il sistema di minaccia e protezione: ha la funzione di individuare velocemente le minacce presenti nell’ambiente e di elicitare rapidi sentimenti di ansia, rabbia o disgusto che ci motivano ad agire prontamente per proteggerci dalla minaccia individuata. L’esito comportamentale di questo processo di regolazione emotiva può essere il fronteggiamento della minaccia, la fuga o la sottomissione.
  • Il sistema di esplorazione e di ricerca delle risorse: ha la funzione di motivarci a cercare le risorse di cui necessitiamo (cibo, opportunità sessuali, nuovi territori, alleanze ecc..). Stimola pertanto emozioni positive ed energizzanti, ci fa desiderare di raggiungere nuovi obiettivi e ci consente di gioire dei successi e delle ricompense ottenute
  • Il sistema di sicurezza: ha la funzione di promuovere i comportamenti sociali affiliativi, il senso di appartenenza, la capacità di instaurare relazioni interpersonali intime e si attiva quando sia uomini che animali non devono fronteggiare minacce o pericoli e, allo stesso tempo, hanno risorse sufficienti. Le emozioni offerte da questo sistema sono il senso di pace, di benessere e di tranquillità; uno stato di “non ricerca” che Gilbert ritiene possa essere sperimentato durante le prime esperienze di attaccamento con i propri genitori, a condizione che queste siano positive.

Secondo Gilbert esperienze precoci di cura da parte di adulti affettuosi e responsivi stimolerebbero l’attivazione del sistema di sicurezza, mentre esperienze di abusi, negligenze o semplice trascuratezza ne ridurrebbero l’attivazione, in alcuni casi fino all’inaccessibilità. Da questa scarsa attivazione o inaccessibilità del sistema di sicurezza e benessere e dalla contemporanea attivazione eccessiva del sistema di minaccia e protezione deriverebbero quei livelli elevati di autocritica e vergogna da cui sono afflitti alcuni pazienti.

L’obiettivo principale della Compassion Focused Therapy è quindi il ripristino dell’equilibrio tra i tre sistemi di regolazione delle emozioni.

 

Bibliografia e approfondimenti:

Gilbert P. (2010). La terapia focalizzata sulla compassione” Edizione italiana a cura di Nicola Petrocchi. FrancoAngeli.

Gilbert P. e Choden (2014). Mindful Compassion. Come la scienza della compassione può aiutarti a comprendere le emozioni, vivere nel presente e sentirti connesso con gli altri. MINDhelp.

Lee D. (2012). Recovering from Trauma using Compassion Focused Therapy. London: Robinson

Compassionate Mind

https://www.igeacps.it/self-compassion/

https://www.iwatson.com/autocritica-o-auto-compassione-quale-funziona-meglio/

https://www.istitutobeck.com/compassion-focused-therapy